La medicina clinica delle cefalee rappresenta oggi un’area ben definita che percorre trasversalmente discipline che fino a qualche decennio fa si arrogano il diritto di possedere l’esclusiva dell’accesso alla ricerca di base e clinica ed all’approccio terapeutico della stessa. Da una visione volutamente parziale, si è giunti ora ad una visione olistica del problema cefalee dove trovano spazio e dignità i vari sistemi biochimici, neurofunzionali, neuroimmunologici, neuropsichiatrici e psicologici. La trasversalità dell’approccio al paziente affetto da cefalea sembra, ad oggi, la chiave della vittoria terapeutica. Infatti, da numerosi contributi scientifici (quali ad esempio Biondi, Portuesi, 1994; Pisani, Arzilli, 1994; Passchier, 2001; Holroyd, 2002; Turk, Gatchel, 2002; Rains et al., 2005; Nappi, Manzoni, 2005; etc) è oggi assolutamente certo che le cefalee primarie rappresentano sindromi multifattoriali e proteiformi che coinvolgono, oltre che diverse branche della medicina, aspetti psicologici, sociali ed economici, rendendo di fatto improponibile un approccio limitato ad un’unica prospettiva disciplinare.

La comorbilità neuro-psicologica è, in questi tempi, oggetto di approfonditi studi e la variegata espressione psichica del paziente cefalalgico, specie se cronico, è oggi indubbiamente una variabile clinicamente considerata ed opportunamente trattata in quanto la patologia condiziona realmente l’esperienza degli individui. Siamo in tempi in cui le cefalee primarie sono state riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra le prime venti cause maggiori di disabilità, mentre il Global Burden of Diseases colloca l’emicrania fra le dieci patologie neurologiche più disabilitanti nella popolazione mondiale ed al primo posto come causa di disabilità al di sotto dei 50 anni.

Classificazione delle cefalee.

Dal 1988 l’International Headache Society 2013 (IHS) redige un sistema di classificazione internazionale delle cefalee (The International Classification of Headache Disorders, ICHD), attualmente alla sua terza edizione (2013, clicca qui per l’elenco ufficiale). La classificazione divide le cefalee in due grandi gruppi: le cefalee primarie (85-90%) si manifestano in assenza di qualunque altra patologia, sono le cefalee per le quali è impossibile identificare una causa, costituendo esse stesse uno stato patologico; per le cefalee secondarie (10-15%) invece è possibile identificare un’origine, e sono quindi secondarie ad altre patologie, come ad esempio la meningite, l’emorragia intracranica, il tumore cerebrale o l’arterite temporale.

Le Cefalee primarie vengono distinte in:

-Emicrania (con aura o senz’aura);

-Cefalea di tipo tensivo;

-Cefalea a grappolo;

-Cefalea trafittiva;

-Altre cefalee primarie (da tosse, da attività fisica, associata ad attività sessuale, preorgasmica, orgasmica, ipnica, ‘a rombo di tuono’, emicrania continua, cefalea quotidiana persistente ‘abinitio’).

 

Le Cefalee secondarie invece sono:

-Cefalea attribuita a trauma cranico e/o cervicale;

-Cefalea attribuita a disturbi vascolari cranici o cervicali oppure intracranici non vascolari;

-Cefalea attribuita all’uso di una sostanza o alla sua sospensione.

-Cefalea attribuita a infezione;

-Cefalea o dolori facciali attribuiti a disturbi dell’omeostasi o di cranio, collo, occhi, orecchie, naso, seni paranasali, denti, bocca o altre strutture, facciali o craniche.

 

Indipendentemente dalla causa del dolore, una delle caratteristiche principali che accomuna le persone durante un attacco di “mal di testa” è la graduale limitazione nella capacità di svolgere le abituali occupazioni quotidiane, fino alla loro completa sospensione. Spesso, anche la qualità della vita a lungo termine viene intaccata a causa dell’instaurarsi di comportamenti messi in atto per la paura della comparsa di una crisi successiva, talvolta fino a favorire l’instaurarsi di veri e propri stati ansioso-depressivi.

Cosa vuol dire essere un paziente cefalalgico?

«La mia esistenza? Totalmente condizionata dall’emicrania». Non è un normale mal di testa, quello che regolarmente si abbatte su Claudia, 46 anni. Ha due diplomi: uno come segretaria, l’altro come venditrice, ma al momento non sta lavorando.
«Voglio andare a fondo della mia situazione, capire da dove arriva il mio problema che non mi permette di fare nulla durante il giorno. Ho perso tempo anche a causa di alcuni medici, dicevano che tutto derivava dalla suggestione, che ero io a mettermi in testa di avere questo problema. Sono stata sottovalutata».
Claudia è una ragazza intelligente, capace, ma non sempre è stata capita. «Soprattutto durante la mia ultima esperienza lavorativa – racconta – quando il mio capo mi diceva “cosa vuoi che sia un mal di testa…” Io stavo male. Soffrivo. Ma per loro quella non era una buona scusa per stare in malattia».
Chi soffre di cefalea si trova confrontato con pesanti rinunce, Claudia ne è un esempio lampante: «spesso devo rinunciare a uscite con amici per colpa di questo problema. Per non parlare delle vacanze al mare. Non ho mai trascorso un’intera settimana senza avere a che fare con l’emicrania. Non so cosa voglia dire. E ora il problema sta rovinando anche la mia vita lavorativa».

Per definizione il dolore è un costrutto psicologico che fa riferimento alla percezione di sensazioni spiacevoli elaborate da un complesso sistema di rete neuronale in diverse regioni cerebrali. Molte delle regioni associate con l’elaborazione del dolore sono coinvolte anche con altri fenomeni psicologici (ad esempio, le emozioni, l’attenzione, lo stress): pertanto, la modulazione del dolore tramite fattori psicologici può avvenire attraverso questi circuiti condivisi, alterando il segnale di dolore all’interno del cervello.

Esistono molti fattori psicologici e sociali che possono favorire un attacco di mal di testa. Tra di essi, principalmente lo stress, i ritmi quotidiani eccessivamente elevati e una modalità di gestione ansiosa degli eventi: quest’ultima, una volta insorto il mal di testa, contribuisce al peggioramento dello stesso rileggendolo a sua volta con una ulteriore preoccupazione. Anche i problemi personali, gli improvvisi e drastici cambiamenti nella vita, o sfide ambientali impreviste rivestono un ruolo significativo. È sempre necessario, comunque, approfondire le singole storie per comprendere come sono state riconfigurate le esperienze, come gli individui si collocano rispetto agli eventi.

La sofferenza del corpo è un’esperienza della soggettività.

La sofferenza umana e tutte quelle condizioni che i medici si preoccupano di curare spesso, ma non sempre, non si verificano nel corpo, come subliminarmente si suggerisce nel pensiero medico classico, ma nella vita. Bisogna pertanto avere la consapevolezza epistemologica che non sempre la radice della sofferenza sta lì, nel corpo, anche quando il corpo, oltre che fornirci una concretizzazione di questa, si presta a divenire il punto di attacco, più facile e accessibile, alla sofferenza stessa.
Il pensiero psicopatologico e fenomenologico ha dato al termine corpo un significato assai più esteso di quello proprio della biologia e della medicina: il corpo a cui si fa riferimento non è dunque il corpo biologico in sé, ma semmai “questo in relazione con la vita psichica”, indicando prima di tutto, un’esperienza corporea, cioè il modo in cui la soggettività umana sperimenta il suo lato materiale e oggettivo, ma anche la modalità con cui questa esperienza si struttura ed evolve nella relazione con l’esterno, il mondo e gli altri.

In tale accezione non è più un corpo biologico come esterno al sistema umano ma un corpo vissuto da vedersi come parte integrante della soggettività di cui rappresenta l’apertura “per o dall’esterno”.

Nelle teorie edonistiche il dolore è semplicemente visto come una sensazione sgradevole, strettamente legata alla sua radice corporea.
Il dolore, tuttavia, non è semplicemente una sensazione ma è anche un sentimento, la sua percezione è data da una diminuzione o da una disorganizzazione delle funzioni vitali dell’organismo. Il dolore è qui patologia, lamento, spasmo. Il suo sentimento, invece, è l’impatto di questa sensazione dolorosa sulla persona. In questo atto riflesso, il dolore (intenso e pervasivo come quello delle cefalee croniche) investe globalmente l’individuo, la sua progettualità, la sua ricerca di senso.

Rispetto al tema del dolore, Claudia pare in balia dell’evento cefalea come se fosse un elemento esterno che arriva e condiziona la sua vita. La prospettiva di sé che emerge è limitata a una ripetizione di ciò che si sta verificando nel presente: problemi nella quotidianità, difficoltà nell’affrontarli ecc.; un circolo immobile e proiettato nella reiterazione di se stesso con la percezione di un destino di soccombenza al dolore stesso e un orizzonte sostanzialmente identico all’oggi.

Nel dolore fisico, la sensibilità percettiva corporea, che è normalmente aperta al mondo, ritorna verso l’interno, scorre indietro, senza nessuna uscita intenzionale,
senza nessuna tensione ad altro,
racchiusa in una possibile rivelazione inattesa di se stessa.
(A. Serrano de Haro, New and old approaches to the phenomenology of pain, «Studia Phaenomenologica», XII, 2012, p. 232.).

In quest’ottica, la psicologia in tutti i suoi vari orientamenti, è chiara nell’affermare che il dolore, come quello cefalalgico non è solo una sensazione fisica, legata a un danno organico in atto o potenziale, ma anche un’esperienza emotiva. In quanto «corpo vivo» questa esperienza rende il mondo ostile, impoverito e duro da tollerare, perché il dolore costringe la persona a ripiegarsi unicamente su se stessa e a ritrarsi dalle relazioni vitali. Le ricerche dimostrano come la cefalea sia legata a cause psichiche almeno una volta su quattro, anche se questo aspetto viene spesso sottovalutato e vi è una resistenza dei pazienti stessi verso un approccio psicologico al problema, in quanto tendono a considerare il proprio dolore come esclusivamente organico e ad aspettarsi, dunque, una risposta medico-farmacologica.

Come abbiamo visto, le cefalee esprimono eventi bio-psico-sociali complessi e riflettono disagi e conflitti psichici che travalicano le capacità di gestione della persona, spesso senza che questa ne sia pienamente consapevole, per questo è importante affiancare alle valutazione medica un percorso psicoterapeutico con il fine di ottenere la riduzione dei sintomi, stimolando dei cambiamenti nei modi di fare esperienza dell’individuo sofferente.