“Tutto è bene quel che finisce bene”, scrisse William Shakespeare oltre 400 anni fa. Queste parole sembrano totalmente valide anche oggi tanto da essere uno tra i più comuni modi di dire, ma da quello che risulta in un esperimento pubblicato sul Journal of Neuroscience, non pare essere un’espressione del tutto corretta. Secondo questo studio, le esperienze che finiscono bene sulla base di un risultato tendenzialmente atteso, non sono necessariamente “buone” nel complesso per la persona che le vive; al contempo, le esperienze che finiscono “meno bene”, non dovrebbero essere necessariamente catalogate come negative. 

Ad esempio, immaginiamo un qualsiasi gioco in cui ci cimentiamo in 5 partite: ci divertiremmo di più a vincere 3 di queste, sparse nel tempo e comunque non nell’ultima partita giocata, oppure a vincerne 2, tra le quali proprio quella finale cronologicamente? La risposta non è proprio così scontata, molte persone scelgono infatti la seconda alternativa. Una delle numerose debolezze che ci spingono a prendere decisioni sbagliate è nella preferenza ingiustificata per il così detto “lieto fine”.

La locuzione “lieto fine”, nella lingua corrente, significa che il risultato finale di un’esperienza vissuta dalla persona, magari caratterizzata da qualche difficoltà, è stato positivo e risolutivo della vicenda. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sul “lieto fine” potrebbe far trascurare ciò che è successo lungo la strada. In effetti un lieto fine potrebbe essere una sensazione breve e arrivare dopo un lungo periodo di mediocrità!

C’è da dire che la maggior parte di noi oggettivamente vive bene le esperienze piacevoli che durano il più lungo possibile, ma allo stesso tempo vogliamo che le cose finiscano bene. Quando Silente è morto alla fine del film di Harry Potter, alcune persone potrebbero aver pensato che la loro intera esperienza con la storia si fosse rovinata, che l’intera saga non fosse stata davvero così piacevole. Ma la piacevolezza vissuta durante tutto l’arco della narrazione non dovrebbe essere data per scontata, è qualcosa che si è vissuta e che ha letteralmente attaccato le persone allo schermo, quindi in teoria non andrebbe accantonata a causa di un finale deludente. Stessa cosa per una lunga vacanza contraddistinta da bel tempo praticamente sempre tranne l’ultimo giorno: questa non è complessivamente peggiore di una vacanza molto più breve col bel tempo costante. Tuttavia, questo è esattamente quello che alcune persone vivono riguardo alle esperienze passate. 

Questa tendenza a ricercare dei buoni finali, spesso a scapito di tutto, viene definito anche  Banker’s Fallacy, o  errore del banchiere, concetto che postula come le decisioni sbagliate vengono prese quando le persone si concentrano su un solo aspetto  delle varie opzioni a disposizione; ciò capiterebbe però anche ai così detti “bravi decisori”, i quali scelgono solitamente l’opzione che offre il miglior risultato o la più alta probabilità di ricompensa, cosa che però accade più difficilmente se questa è una prospettiva  lontana nel tempo.

Il nocciolo del problema sembrerebbe essere nel fissare il “lieto fine” come obiettivo, come se la mente puntasse tutto soltanto sulla nostra impressione finale delle vicende e non al nostro godimento generale.

LA NEUROSCIENZA DEL “LIETO FINE”

Per esaminare questo fenomeno, i dottori Vestergaard Schultz hanno invitato 27 volontari a prendere parte a un esperimento di gioco d’azzardo virtuale. Ai partecipanti sono stati fatti vedere dei contenitori di denaro sullo schermo di un computer mentre delle monete d’oro, di diverse dimensioni, cadevano in questi una per una. Un “lieto fine” previsto era quello in cui le monete d’oro più grandi cadevano dentro il contenitore alla fine della sequenza.

L’esperimento si è svolto con l’ausilio di uno scanner MRI (risonanza magnetica), che ha permesso di monitorare l’attività del cervello mentre i partecipanti esaminavano le coppie di monete d’oro in sequenza. Dopo ogni coppia visualizzata veniva chiesto ai partecipanti di decidere quale piatto preferivano.

Le analisi computazionali delle registrazioni cerebrali hanno mostrato che il valore di un’esperienza viene elaborato in due distinte regioni del cervello. Il valore complessivo è codificato in una regione del cervello chiamata amigdala. È stato affermato, anche in altri studi, che l’attivazione dell’amigdala modula le risposte emotive che possono portare a comportamenti irrazionali e impulsivi, ma è stato anche dimostrato che può codificare razionalmente il risultato di strategie di risparmio economico.

Ma l’influenza dell’amigdala sul processo decisionale sembra essere influenzata da un’attività disincentivante che avverrebbe in una regione dell’insula anteriore, la quale sembra registrare esperienze precedenti non finite bene. L’insula anteriore è talvolta associata all’elaborazione e la memorizzazione di esperienze negative, come il disgusto, suggerendo che alcune persone si attivino volontariamente per respingere gli esiti negativi di alcune esperienze.

Nell’esperimento del gioco d’azzardo, i bravi decisori hanno scelto i contenitori con la maggior parte dei soldi, indipendentemente dal fatto che abbiano visualizzato delle monete d’oro più grandi cadere dentro questi alla fine della sequenza. In questi soggetti era evidente l’attivazione prevalente dell’amigdala, lasciando intendere che questa in effetti elabori un ragionamento orientato a valutare il valore complessivo dell’esperienza; negli altri soggetti si è invece notata un’attività maggiore nell’insula anteriore. In altre parole, i buoni decisori sono stati in grado di annullare l’impressione sgradevole dell’esperienza, che a volte può sembrare avere un esito infelice, ottenendo così un “vero guadagno” dalla situazione.

Non è tanto Shakespeare ad aver sbagliato. Poiché questi meccanismi cerebrali operano al di là della nostra consapevolezza, possono essere rafforzati dalla cultura umana e dall’apprendimento individuale. La nostra mente sembra aver bisogno dell’intervento del nostro pensiero per aiutarci a resistere alle notizie false e ad altre manipolazioni. La maggior parte di noi sa già come farlo, ad esempio scrivendo un elenco di pro e contro per sostenersi in decisioni più sagge, piuttosto che fare affidamento sull’istinto.

Se il nostro comportamento quotidiano si concentra troppo sul recente passato, in qualche modo siamo sulla strada sbagliata. Dovremmo fermarci e pensare a ciò che stiamo facendo, analizzando in maniera accurata tutte le variabili in gioco, concentrandoci maggiormente sugli aspetti più rilevanti per noi, per la nostra persona, per poter prendere una vera e propria “buona decisione”.

Martin D. Vestergaard, Wolfram Schultz. Retrospective Valuation of Experienced Outcome Encoded in Distinct Reward Representations in the Anterior Insula and Amygdala. Journal of Neuroscience. 2020, 40 (46) 8938-8950; DOI: https://doi.org/10.1523/JNEUROSCI.2130-19.2020